“Non c’è più pollo da friggere ed il 75% dei KFC inglesi deve chiudere”, recita l’impietoso titolo di molti quotidiani britannici. La catena del pollo fritto del Kentucky a fine febbraio ha dovuto chiudere 575 dei suoi 900 punti vendita in attività in Gran Bretagna e in Irlanda a causa della mancanza di carne di pollo, ingrediente principale di tutte le loro pietanze.

 

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Per noi che viviamo ogni giorno la complessità della supply chain in molti settori, è una notizia che fa riflettere. In fondo, superato il facile sorriso iniziale, non possiamo che metterci nei panni del supply chain manager che attonito vede realizzati i suoi peggiori incubi. Il recupero della situazione è già in atto, e c’è da giurare che la multinazionale del Kentucky utilizzerà a scopo promozionale anche questa costosa disavventura, ma la domanda di hansei che vi propongo è: cosa sarebbe dovuto succedere per evitare il problema?

La risposta non è certo semplice, ma ci da modo di tratteggiare alcune caratteristiche rilevanti delle attuali supply chain.

VUCA (volatility, uncertainty, complexity, ambiguity) è l’acronimo che al momento meglio fotografa la quotidianità dei professionisti del Supply Chain Management e non è un termine rassicurante, almeno per il tradizionale approccio al management (per intenderci, quello nel quale c’è una fase di pianificazione seguita dalla fase di azione e verifica dei risultati). Oggi sembra tutto diverso, e pianificare un evento come quello dei polli sembra impossibile. Cosa avremmo fatto noi al posto del responsabile? Magari proposto un acquisto speculativo anticipato, con il rischio di investire ingenti risorse in stock? Sembra un’idea improbabile da presentare al board di qualunque azienda. Un investimento fatto in previsione di un rischio ipotetico non è accettabile in un contesto ordinario per il semplice fatto che i rischi ipotetici sono infiniti, diversamente dalle risorse aziendali.

Un contributo all’approfondimento del problema ci arriva da un libro non ordinario, scritto dallo statistico libanese Nassim Taleb, che guarda caso ha un altro volatile nel titolo “Il cigno nero: come l’improbabile governa la nostra vita”. Il cigno nero è stato per secoli la metafora dell’impossibile, finché in Australia non si scoprirono proprio alcuni cigni neri e l’impossibile divenne possibile.

Nella visione di Taleb il cigno nero rappresenta un evento con tre caratteristiche principali:

  • Molto raro;
  • Di forte impatto;
  • Prevedibile solo a posteriori.

L’autore si occupa per professione di assicurare le compagnie assicurative contro il rischio di eventi improbabili e catastrofici, e ha avuto modo di affrontare costantemente il tema della prevedibilità nella sua lunga carriera. Come prevedere la catastrofe dell’11 settembre e dunque quale premio di assicurazione per le torri gemelle? Nel suo racconto Taleb si inserisce nel filone degli studiosi (capeggiati da Popper, con la celebre metafora del tacchino) che mettono in crisi l’approccio induttivista alla conoscenza. Basarsi sull’esperienza empirica per costruire conoscenza (es. visto che è sempre andata in questo modo, andrà sempre così) placa la sensazione di incertezza con cui l’uomo difficilmente convive, ma allo stesso tempo espone ai rischi di un evento improvviso e fuori dai soliti schemi, il cigno nero appunto.

Un ulteriore ostacolo al contrasto dei cigni neri è quello della difficoltà di azione a priori: se, ad esempio, un nuovo regolamento sulla necessità di avere cabine di pilotaggio blindate fosse entrato in vigore il 10 settembre, salvando così il mondo dalla catastrofe del giorno successivo, come sarebbe stato preso dalle compagnie aeree: come una grazia, oppure come l’ennesima inutile complicazione governativa? Sicuramente nel secondo modo, perché non avendo avuto esperienza diretta delle conseguenze (improbabili fino ad allora), non si sarebbe trovata giustificazione all’eccesso di zelo richiesto. E lo stesso vale per le nostre alette di pollo: qualunque azione “robusta” fatta per anticipare un problema immaginario (dobbiamo ritenerlo tale fino al suo verificarsi) non è prevista (se non apertamente osteggiata) dal nostro modello decisionale, che è tradizionalmente induttivo ossia basato sull’esperienza.

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In questo contesto il contributo dell’approccio Kaizen può essere decisivo, perché al contrario di molti altri approcci “normativi” (che prevedono l’applicazione di modelli decisionali basati sulle migliori esperienze – best practices – accumulate a livello mondiale) punta al rinforzo della capacità decisionale di tutte le persone all’interno di un processo per migliorare efficacia e reattività. Non essendo possibile prevedere i cigni neri, ed essendo troppo costoso agire in anticipo su cause improbabili, la risposta deve essere quella di costruire un sistema reattivo, pronto ad intercettare i segnali deboli ed agire subito in modo organizzato al verificarsi di eventi imprevisti. Questo approccio non richiede soluzioni “da manuale” (la conoscenza delle best practices sopra citata), ma un costante allenamento delle persone ad osservare-capire-decidere: quello che chiamiamo Daily Kaizen. Proprio il Daily Kaizen è lo strumento manageriale che permette il costante allenamento delle persone ad ogni livello dell’azienda a risolvere i problemi quotidiani e far “salire” immediatamente le anomalie più importanti, impedendo così che vengano sottovalutate.

Responsabilità, velocità e resilienza stanno emergendo come le caratteristiche delle organizzazioni di successo. Nessuna di queste può essere acquistata all’esterno (e nemmeno delocalizzata), ma tutte devono essere allenate in modo sistematico. Una bella sfida per affrontare un mondo sempre più VUCA.